Claudio Pelizzeni è passato in via Giordano Bruno per raccontare la sua esperienza al blog “Camminatori seriali”
Qualche giorno fa nella nostra sede è passato a trovarci un ragazzo che negli ultimi anni ha fatto del viaggio e anche del camminare, un lavoro. Lui è Claudio Pelizzeni, il creatore di Trip Therapy, e ormai da qualche anno è diventato una icona del viaggiare lentamente.
Lo abbiamo intervista per il nostro blog “camminatori seriali” per farci raccontare la sua esperienza anche il suo punto di vista su tanti temi legati al viaggio da un punto di vista e personale, sociale ed economico.
Claudio, partiamo dalle domande che ti hanno già fatto in tantissimi: quando e soprattutto perché hai deciso di lasciare tutto e partire?
Era il 2013, stavo lavorando a Milano come bancario e una sera tornando a casa in treno, mi trovo davanti ad un tramonto stupendo alla fine di una giornata di pioggia e li ho pensato che fosse il momento di cambiare vita. Volevo dire basta a tutto quel cemento e mi stavo chiedendo “Sei felice?”, “cosa puoi fare per esserlo?”. Mi sono risposto che era il viaggio che mi faceva sentire una persona migliore, verso me stesso e verso gli altri. Mi sono detto: “non ho moglie, figli, animali, chi me lo fa fare?”.
Io avevo una bella vita e perciò mi sentivo anche un po’ in colpa perché stavo prendendo il posto a qualcuno più motivato di me e allora me la sono giocata. Avevo solo la liquidazione e da quello sono partito.
Ognuno interpreta e vive “il viaggio” in modo diverso. Per te cosa vuol dire viaggiare?
È un assetto mentale, è dentro alla tua testa. In base a come ti approcci, vivi avventure ed emozioni diverse. Anche io sono stato in resort e alberghi e lo si fa per staccare e riposare, il viaggio invece è totalizzante, perché ti consuma e ti prende. Procurarti il cibo, stare nel budget, gestire le stagione in cui sei in quel momento. È una cosa piena ed è cioò che vivi nel mondo in quel momento, insieme alla vita dei locali.
Dopo tantissimi chilometri trascorsi, è arrivato il libro “L’orizzonte ogni giorno più in là” edito da Sperling & Kupfner. Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Quando ero adolescente scrivevo tante poesie e canzoni ma ero un pessimo cantante e a un certo punto ho mollato. Poi però per prima cosa ho ripreso a scrivere nel blog, ed era un po’ un ritorno all’epoca adolescenziale, ed è stato un ottimo allenamento. Questo fino a quando un giorno, su un cargo verso l’America, non avevo più niente da vedere sul computer, mi sono detto “ho questa occasione di avere 20 giorni di isolamento, perché non comincio a scrivere?”. La cosa è proseguita e quando sono arrivato sul continente ho trovato tante cose di cui parlare.
Nei tuoi viaggi c’è anche un discorso a cui noi siamo molto legati che è il viaggiare con lentezza. Un tema sempre più attuale. Questo può essere il futuro per le vacanze o solo i momenti di relax per tante persone in questo Mondo che invece va sempre ai 1000 all’ora?
Qua torna l’economista che è in me! Il mercato di alberghi e resort è saturo ed è inevitabile in declino. Ci si sposterà sui posti, ma non sulla proposta e dall’altra parte c’è una attenzione verso un turismo esperienziale. Non basta il posto bello, la foto bella, ma la gente vuole cose da raccontare, che significhino qualcosa. Questo però cozza con il poco tempo che abbiamo tutti e anche con la miopia di uno Stato che non vede queste opportunità.
È folle non avere una ciclabile che colleghi tutta l’Italia, sarebbe una cosa che farebbe bene a tutti: verde, gente che non sporca, e sarebbe anche un modo per ripopolare alcuni posti portandoci qualcosa. Un turismo di prossimità dove bisogna investire forte, non basta mettere i parcheggi al lago di Braies. Pnterventi strutturali e lavoro sui parchi naturali. Com’è che la val Trebbia non è ancora parco naturale? Venezia e Firenze lavoreranno sempre ma dobbiamo far lavorare i piccoli posti e investire nell’outdoor, uno stile sano che magari porta poco nel breve, ma poi molto nel lungo periodo.
Torniamo alla parte letteraria. Dopo il primo libro, è arrivato il secondo, “Il silenzio dei miei passi”, scritto sulla strada per Santiago de Compostela. Immaginiamo che umanamente e spiritualmente sia stato una cosa diversa. Come è stata questa esperienza e in che cosa è stata differente dai precedenti viaggi?
Una esperienza molto forte più che altro per i 72 giorni di cammino. Due mesi e mezzo in cui ti alzi, cammini e devi trovare tutto, dal mangiare al dormire, al bere. Poi per il silenzio, che però è una cosa che ognuno può conoscere, ad esempio la domenica in un bosco per sentire i propri pensieri, le parole, i suoni. Basta ritagliarsi del tempo e spegnere il telefono. Se uno prova una volta poi continua a farlo anche senza fare 2000 chilometri. Io in quel momento ne avevo davvero bisogno, anche per un discorso di consapevolezza, per rimettersi in discussione ed evolversi.
Noi siamo gli editori delle Camminate Piacentine, sappiamo che le conosci e ti chiediamo: nella testa di chi ha girato il Mondo, cosa vuol dire andare a scoprire luoghi a poche ore da casa?
C’è una scoperta continua e un grande rammarico per non preservarli e non valorizzarli come si deve anche perché noi piacentini siamo un po’ polemiconi e non riusciamo a valorizzare le cose che abbiamo. Se val Trebbia e val d’Aveto fossero parchi nazionali e se tutto avesse una organizzazione, sarebbe accettato avere molte più persone in zona? Non ne sarei così sicuro.
Le iniziate valide ci sono, ma nel lungo termine si fa fatica a vederne i risultati e poi spesso la nostra mentalità ci fa guardare più al nostro orticello invece che di vedere oltre. Il Covid doveva dirci di investire in val Trebbia, dare la possibilità di andare a vivere il fiume ma preservando il territorio, così come anche la val d’Aveto e in generale tutto l’appennino, ma invece non è stato fatto.
Noi, per scelta, lavoro e passione, siamo molto legati al nostro territorio. Tu oggi che rapporto hai con Piacenza?
Amore e odio. La amo perché sono le mie radici e la nostra provincia è un piccolo gioiello, ma la odio perché mi scontro con una mentalità troppo chiusa. Mi vedono come uno scansafatiche o uno che non lavora ed invece mi faccio molto di più il culo rispetto a quando ero in banca. Purtroppo in questo caso è vero che nessuno è profeta in patria.
Soprattutto poi per chi ha avuto successo con internet, perché dimostri che se vuoi fare delle cose, le puoi fare davvero e questo si scontra con una mentalità chiusa perché metti le persone di fronte alla realtà. Le cose poi si ripercuotono in modo brutto nella ricerca della polemica, e questo è molto nostro.
Passiamo tanto tempo sui social e c’è anche chi lo fa, come te, ormai anche per lavoro. Quando hai capito che YouTube e poi Instagram potevano diventare un volano per far conoscere i tuoi viaggi?
Io avevo capito quasi da subito il loro potenziale e subito ci ho investito perché guardando i travel bogger americani pensavo che fosse la porta giusta da tenere aperta. Poi c’è stato un momento in cui i followers aumentavano, ero in sud America, in Guatemala e in Argentina, e le persone mi riconoscevano. Lì mi è venuto da chiamare il mio amico Giacomo Spotti per chiedere quante persone ci stanno al Garilli e ho pensato che avevo tanti followers quanti spettatori c’erano in quel Piacenza – Juventus che io mi ricordavo come un evento unico.
Li ho capito che la cosa dava concretezza. Poi cominciarono ad arrivare le aziende regalandomi cose e poi i primi compensi e ho capito che potevo lavorare con la mia creatività.
Però mi dicevi che le cose sono cambiate…
Si perché i social mi stanno cominciando a pesare tanto perché non li vedo più come il mio mondo, questo perché l’algoritmo è un cancro nella società perché invece di aprire la mente e far vedere cose nuove, ti fa chiudere nella cerchia di persone che la pensano come te. Poi hanno una velocità sempre più alta e una soglia di attenzione sempre più piccola. Per non parlare delle decisioni politiche, perché i politici sono in mano ai sondaggi, e di come alimenta il discorso delle fake news.
Per me l’algoritmo andrebbe proprio vietato, finché è marketing pubblicitario è un conto, ma quando invece mi vengono proposte solo le cose che guardo io, è male, infatti sto meditando una uscita dai social se le cose non cambiano.
Viaggiare per te ha voluto dire anche lavorare per assicurarsi un pernotto e perciò doversi adattare anche a cosa che immaginiamo non conoscevi. Come è stato il ritorno dai tuoi viaggi alla normalità?
Questa è la domanda che ci si deve porre. Nel momento in cui non vivi il viaggio come turista, per cui io non ho nulla contro, hai una normalità fatta di scadenze, piscina, il gioco dei bambi; se invece lo fai come lo vivo io, lo vivi in un modo completamente diverso. Devi capire come portare tutto il viaggio nella tua normalità. Io ci sono riuscito e nel 2019 quando ho fatto 50 giorni a Piacenza e questa normalità tra treni e aerei, da nomade insomma, mi fa stare bene.
Bisogna capire se l’evasione è una fuga o uno stile di vita. Un viaggio vuole anche dire cose difficili, come gestire un budget, trovare lavoro per dormire, bere non oltre due birre al mese per non rischiare di non trovare un posto dove dormire il girono dopo. Tutto questo cambia prospettiva e ti rendi conto che di prospettive ce ne sono tante.
Un consiglio per chi legge: cosa non bisogna mai dimenticarsi a casa quando si parte per un viaggio?
Intanto la carta igienica, soprattutto in certi viaggi! Ma a parte le battute, più che altro bisogna sempre partire sapendo che il viaggio non è una cura assoluta o la panacea di tutti i mali. Devi chiarirti con te stesso, non lasciare le cose in sospeso perché prima o poi saltano fuori. Partire libero dai problemi per accogliere quello che il mondo ti dà.
Ovviamente la chiusura è legata al futuro. Hai in programma nuove avventure?
C’è un progetto semi top secret. Posso dire che ho iniziato a mettere il primo tassello di un progetto che prevede un cambio di vita per essere ancor più nomade. Ho trovato un Land Rover Defender che potrebbe rappresentare l’ultimo viaggio “epico”, quello in cui posso creare un riscontro davvero grande. Questo viaggio potrebbe essere anche essere l’uscita dai social e del mondo post covid, circa tra un anno, un viaggio anche per poi smettere di alzare l’asticella.