Tutto pieno nel locale del centro di Piacenza per “Pensavi fosse amore, invece era un disastro” della psicologa piacentina che abbiamo intervistato
Una presentazione con tanta gente e molto partecipata per la nuova uscita targata Edizioni Officine Gutenberg che ci ha portato nel mondo della psicologia, grazie alla Dott.ssa Silvia Tizzoni. Il suo libro “Pensavi fosse amore, invece era un disastro” è stato presentato sabato mattina alle 11 al Caffè dei Mercanti e la risposta del pubblico è stata subito molto positiva.
La psicologa Silvia Tizzoni e le sue parole nella nostra intervista
A lato della presentazione, dove la Tizzoni è stata accompagnata dall’illustratrice Gaia Foppiani e dalla Dott.ssa Simona Giuppi, ne abbiamo approfittato per fare una chiacchierata con la stessa autrice del nuovo libro della casa editrice piacentina.
In un mondo di guerre, di rincari, di nuovi governi bla bla… Perché parlare ancora d’amore?
Perché l’amore resta ancora il grosso motore di tutto. Quello di cui ascolto e parlo in tante delle mie sedute, quello di cui discutiamo al telefono o davanti a una tazza di caffè con un’amica. Perché è vero che l’amore ci può salvare, ma ci può fare anche un sacco di danni. A volte è un contenitore bellissimo di condivisione, di reciprocità, di ben-essere, altre è una zavorra pesante da caricarsi sulle spalle.
Altre ancora è un vero e proprio limite perimetrale che ci fa rinchiudere e stare “al sicuro”, nella nostra sacra zona di confort: ‘che io con quella cosa lì ho smesso, per carità!’, ‘che io così male non ci voglio più stare’: perché la fine di una relazione d’amore è ancora più faticosa. È la fine dei progetti condivisi, delle abitudini, dei riti di coppia, delle routine collaudate. E’ perfino la fine di tutti quelli che chiamiamo ‘processi secondari’: la probabile interruzione dei rapporti con la famiglia di lui, con gli amici di lui. Un vuoto grosso, insomma.
Dire a un “narci” che è un “narci” è una buona idea?
Io ci andrei molto cauta. Nella sua versione migliore vi riderà in faccia: non riconosce i suoi limiti e la sua patologia, i suoi comportamenti sono assolutamente ‘normalizzati’ e di certo non saranno le tue parole a scalfirlo.
Nella peggiore: il narcisista già accetta a fatica le critiche, figuriamoci se sarà disposto a sentirsi dire che soffre di un disturbo di personalità! E poi a lui piace primeggiare, diversificarsi, essere unico, nel bene e nel male: sentirsi etichettare è banalizzarlo, metterlo dentro ad un mucchio di altre persone che funzionano come lui. Giammai!
Peggio ancora: potrebbe leggerlo come un vero e proprio insulto o un rimprovero, la cosa più controproducente che esista.
La cosa migliore che ti auguri per il tuo libro?
Che possa dare degli strumenti concreti a chi sta vivendo una relazione malsana. Come dire: basta demonizzare il lupo, facciamo sì che Cappuccetto Rosso abbia quantomeno un paniere ben rifornito!
Che possa insomma consentire a tante donne di identificarsi con la storia di dolore e al tempo stesso di “emancipazione” della mia paziente, che sappiano leggersi e ritrovarsi tra le righe, perché magari hanno condiviso gli stessi pensieri, riflessioni, emozioni. Gli stessi momenti bui. Lo stesso smarrimento, lo stesso senso di confusione.
Anche per vincere la vergogna e sentirsi meno sole, meno inadeguate. Anche per darsi il tempo di guardare da vicino i malfunzionamenti nella loro coppia e trovare finalmente il coraggio di dare dei limiti, di legittimare i propri diritti, di rappresentare i propri bisogni… oppure di mettere la parola fine, con la speranza di un’evoluzione e di una crescita personale. Perché non è mai troppo tardi!
Prima hai citato i lupi, ma dici che non c’è proprio c’è possibilità di addomesticarli?
Intanto ti ringrazio moltissimo per la domanda, perché è una cosa a cui tengo molto. Se è indubbio che questi funzionamenti hanno una natura assolutamente indomita e faticano a sentire su di sé limiti e regole imposte da altri, per cui forse il verbo “addomesticare” non è proprio il più azzeccato, è anche vero che la partner potrebbe pensare realmente di fare un lavoro profondo su di sé, centrandosi e non cadendo necessariamente nel ruolo di vittima, mettendo un confine, mantenendo solido un controllo e un buon equilibrio su di sé.
Te ne dico un’altra: provando ad esempio a smettere di vivere la relazione con delle perenni proiezioni patologizzanti sull’altro: quello che dà, ma soprattutto quello che toglie. Togliendosi infine dalla testa l’idea pretestuosa che lui possa cambiare: può smussare alcune cose, ma di cambiamento no, per la mia esperienza professionale decisamente non me la sentirei di parlare!
Certo, ancor più con queste premesse ribadisco che non è né facile né scontato: bisogna imparare a starci, anzi, prima ancora scegliere di starci. Ma in alcuni casi, un po’ giocando, un po’ alleggerendo, un po’ distanziandosi, un po’ rischiando (e ben sapendo di farlo!) potrebbe anche valerne la pena. Perché abbiamo capito che condividere la vita con uomini di questo tipo non è semplice, ma ci possono essere delle risonanze relazionali e momenti ‘nutrienti’, di piacevolezza, di intensità e di prospettiva davvero non comuni.
All’interno vediamo anche delle illustrazioni! Chi è l’autrice? e come i suoi disegni sono andati a completare i testi?
Le bellissime immagini che completano il racconto del diario sono a cura di Gaia Foppiani, che ha studiato al Liceo Cassinari e ha proseguito all’Istituto Europeo di Milano. L’ho trovata una ragazza creativa, giocosa, piena fantasia, ma soprattutto dotata di una sensibilità particolare, che l’ha portata a cogliere la voce interiore della mia paziente, dando forma alle sue emozioni e alle sue paure più profonde, utilizzando una delicatezza non scontata e mai banale, estremamente evocativa, a tratti metaforica. È stata la migliore delle collaboratrici che potessi avere!
Il libro in gran parte è sotto forma di diario. Quanto è importante questo strumento sia per chi lo scrive sia per il lavoro della psicoterapeuta?
Da anni si è compreso quanto la scrittura possa avere un potenziale terapeutico, del resto anche Duccio Demetrio, fondatore dell’Università dell’Autobiografia, ha dichiarato che non dovremmo più avere dubbi nel citare il potere terapeutico della scrittura.
Sicuramente per i pazienti, soprattutto in alcuni momenti della vita, quando ci sono grandi difficoltà o situazioni di disagio, innanzi ad un fallimento personale o se vacilla pericolosamente l’autostima, oppure è forte la volontà di intraprendere un percorso di presa di consapevolezza di se stessi: comprendere i meccanismi di funzionamento è la prima chiave per fare un passo avanti, per non essere sempre preda delle trappole che autosabotano.
E poi per me, che con certi pazienti riesco meglio ad “entrare” e a “leggere” le loro emozioni in profondità, soprattutto se nella comunicazione verbale c’è qualche forma di resistenza o, viceversa, molta confusione narrativa: mettere nero su bianco i propri pensieri aiuta a sviluppare maggiore autocontrollo, perché scrivere rende più lucidi
Nell’ultima parte troviamo la postfazione di Simona Tosi. Perché hai scelto le sue parole per chiudere questo tuo lavoro?
Simona, oltre che essere una collega che stimo moltissimo, è anche una carissima amica; abbiamo condiviso diversi percorsi formativi e spesso lavoriamo insieme in co-terapie o in percorsi individuali, magari con coppie, dove ognuna segue uno dei partner e poi ci riuniamo periodicamente in momenti di confronto congiunti. La sua capacità di accoglienza, la sua empatia e la sua professionalità mi sono state in tanti casi di grande aiuto, anche solo come supporto o scambio di pareri e strumenti diagnostici.